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Una Comunione di Genere

Il ruolo delle donne nella vita della Chiesa.

Il tema diventa sempre più attuale e coinvolgente,

così come viene esposto in questo contributo “al femminile”

che esamina gli aspetti teologici, culturali e politici

a partire da un interrogativo fortemente provocatorio:

“Se la Chiesa ‘crolla’ con l’ammissione delle donne al ministero,

significa che la Chiesa trova un suo fondamento nella loro esclusione?”.

 

 

Buona lettura

+ don Franco, vostro fratello vescovo
 

Maria Cristina Bartolomei 

La Chiesa cattolica e le donne

 Una comunione di genere?

er avviare correttamente la riflessione, è necessario in primo luogo cogliere la paradossalità, anzi l’assurdità implicita nell’impostazione corrente che parla del «problema delle donne nella Chie­sa». Il problema non è la posizione delle donne nella Chiesa; il problema è che la posizione delle donne nella Chiesa sia un problema. Non per dire che la questione non sussista, giacché sussiste ed è macroscopica. Ma, al contrario, per co­gliere come il solo fatto che una tale questione sussista debba inquietarci, farci rendere conto di qualche stor­tura di fondo nello sguardo stesso con cui s’inquadra la problematica.

Come mai le donne, che sono la metà del genere umano e dei battezzati, sono in posizione «differenzia­le» nella Chiesa? Differenziale, per svantaggio, rispet­to agli uomini che, invece, sono la normalità norman­te.

La risposta è d’ordine storico, culturale, simbolico. E ci rinvia alla consapevolezza dell’impronta patriar­cale e androcentrica che ha strutturato per millenni la nostra società e cultura (e, per irradiazione, universa­le), e che ancora la segna: sempre più marginalmente nei paesi evoluti, invece ancora molto pesantemente in gran parte del mondo. Nella cultura patriarcale e an­drocentrica, «le donne» sono una variante subordina­ta dell’essere umano, invece pienamente rappresenta­to dagli uomini. Di qui il problema d’individuare il lo­ro proprio, il loro posto «nella società degli uomini».1

Nella «Prefazione» alla seconda edizione dell’ope­ra di Kant La religione nei limiti della sola ragione2 è contenuta una metafora divenuta celebre, nella quale si disegna il rapporto tra rivelazione e religione razio­nale come quello di due cerchi concentrici:3 quello più ampio della rivelazione contiene in sé il cerchio più stretto della conoscenza di Dio cui si può giungere per via razionale. Il senso della sottolineatura di Kant è di difendere la «razionalità» della fede rivelata (visto che coincide con la religione razionale) e insieme tutelarne la libertà e l’eccedenza rispetto alla ragione.4

La metafora kantiana ci è utile per illustrare il rap­porto tra diverse componenti che entrano in gioco nel rapporto, asimmetrico, da un lato, tra la Chiesa e le donne e, dall’altro, tra le donne e la Chiesa (s’intende qui: cattolica, del XX-XXI secolo). La questione si compone di vari aspetti e momenti: le donne nella Chiesa oggi; le donne nella Chiesa delle origini e dei primi secoli; le donne nel Nuovo Testamento; le donne nello sguardo della Bibbia; la visione delle donne nei documenti magisteriali (che per lo più parlano de «la donna»); la posizione delle donne nella riflessione teo­logica, in particolare nella ecclesiologia; la riflessione specifica delle teologhe sulla posizione delle donne nel­la Chiesa; l’autocoscienza contemporanea delle don­ne; le donne nella società (attuale).

Tutti questi aspetti e dimensioni non si collocano affatto come cerchi concentrici, sovrapponibili con ec­cedenze; neppure si collocano tutti come cerchi che si sovrappongono almeno in parte. In certi casi costitui­scono cerchi — ossia aree di coscienza, realtà, teoria, esperienza — del tutto estranei l’una all’altra. Vi è un forte scollamento tra l’autocoscienza delle donne, i ruoli, funzioni e responsabilità che esse assumono, e, d’altra parte, il posto che nella Chiesa (cattolica) è ri­servato alle battezzate. Di più: vi è uno scollamento tra le funzioni e le diaconie che le donne svolgono di fatto nella Chiesa e il (non) conferimento a loro dei relativi ministeri, neppure di quelli laicali non ordinati, ma istituiti (lettorato, accolitato).

Pensiamo a quante suore missionarie reggono di fatto parrocchie, presiedono liturgie della Parola, bat­tezzano, assistono a funerali e matrimoni su mandato del vescovo, ma senza ordinazione (in questo caso: diaconale). Altrettanto dicasi per le assistenti pastorali (le cui competenze stanno peraltro venendo diminuite, a cominciare dalla predicazione). E un macroscopico caso di mancanza di riconoscimento? Questo è il pro­blema. Uno scollamento problematico, che papa Francesco ha ben colto.

 

Qui vedo solo uomini

Secondo quanto riportato dal sito Internet vatica­no, l’8 marzo 2016, nel corso degli esercizi spirituali predicati alla curia, p. Ermes Ronchi osm prese le mosse per la sua riflessione dal racconto evangelico di Gesù che, invitato nella casa di Simone il fariseo, rompe ogni convenzione e lascia che una donna (per tutti «la peccatrice»), pianga ai suoi piedi, e li asciughi con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato. E, di fronte alla sorpresa di Simone, Gesù

lo ammonisce: «Guarda questa donna», la quale da «peccatrice» diviene «la perdonata che ha molto amato».

Ha detto p. Ronchi: «Se Gesù domandasse anche a me “la vedi questa donna?” dovrei rispondere “no, Si­gnore, qui vedo solo uomini”. Non è molto normale questo, ammettiamolo. Dobbiamo prendere atto di un vuoto che non corrisponde alla realtà dell’umanità e della Chiesa».

«Non era così nel Vangelo», dove molte donne se­guivano e servivano Gesù, ma «al nostro seguito non le vedo», ha aggiunto il predicatore. «Gesù era sovranamente indifferente al passato di una persona, al sesso di una persona, non ragiona mai per categorie o stereoti­pi. E penso che anche Io Spirito Santo distribuisca i suoi doni senza guardare al sesso delle persone. Che cosa ci fa così paura, che dobbiamo prendere le distan­ze da questa donna e dalle altre?» ha quindi chiesto.

Una domanda aperta e impegnativa. Che richiede risposte in primo luogo antropologiche e culturali e, in armonia con queste, anche teologiche. Senza che queste ultime corrano il rischio di trincerarsi dietro a tradizio­ni,6 confondendole con «la» Tradizione, che è l’attiva e viva « traditio» attraverso il tempo della fede apostolica.

La cosa più grave non è tanto che non siano in asse l’autocoscienza delle donne e il ruolo che ora rivestono nella società (nelle società evolute, civili e democrati­che) e il posto che loro è assegnato nella Chiesa, o per dir meglio che non è loro assegnato nella Chiesa, giac­ché il loro «posto» è piuttosto costituito dalla preclu­sione a ruoli e funzioni.

Il laico è chi non è sacerdote né religioso, era la vec­chia, preconciliare definizione del laico; analogamente si potrebbe dire: qual è il posto delle donne nella Chie­sa? Il posto delle donne è di essere escluse dalla funzio­ne sacerdotale, dall’autorità, dalla titolarità e respon­sabilità dell’evangelizzazione.

Se poche settimane prima di morire, nell’agosto del 2012, il card. Carlo M. Martini osservava che la Chie­sa è in ritardo di 200 anni, per questo aspetto non solo è in ritardo, ma è tornata indietro di 2000.7 La cosa più grave, infatti, è che non sono pienamente in asse tra loro la posizione assegnata nella Chiesa alle donne, da un lato, e, dall’altro, le funzioni e i ruoli affidati alle donne da Gesù e nella comunità delle origini, e neppu­re la visione biblica sulla donna.

Pur dall’interno di una cultura androcentrica, la Bibbia apre delle fenditure che spaccano la chiusa cro­sta del patriarcato (come dimostrano Debora, giudice in Israele e le altre madri d’Israele: Miriam profetessa, Sara, Anna, Elisabetta che decide il nome del figlio, fi­no a Maria8); la prassi di Gesù e delle comunità delle origini verso le donne, attestata nel Nuovo Testamen­to (le donne integrate nella sequela; cui è affidato l’an­nuncio pasquale; titolari di apostolato, diaconato, che profetizzano), segnò una fase - purtroppo breve - di novità sovversiva rispetto alla cultura patriarcale do­minante; quest’ultima prese poi di nuovo il sopravven­to, a misura in cui la Chiesa perdeva la tensione esca­tologica e si «stabiliva», inserendosi nelle strutture so­cio-politiche del tempo.

Questo è l’aspetto più grave, giacché significa non che vengono sottratti «diritti» alle donne (che pure è cosa non irrilevante, umanamente e cristianamente, anche se ministeri e carismi sono doni e non diritti che si possano rivendicare), ma che la Chiesa si sottrae a suoi doveri di risposta fedele ai mandati di Dio.

 

Portatrici di una profezia straniera

    Ma proprio perciò questo aspetto è anche quello che più dà slancio, fondamento e speranza a un movi­mento di cambiamento. La Chiesa infatti è chiamata a camminare nella storia cogliendo i segni dei tempi e rispondendovi guidata non da motivazioni esterne, ma dalla più profonda comprensione della parola di Dio, che significa anche sapiente messa in relazione di quest’ultima con i segni dei tempi, con l’approfondi­mento della comprensione dell’umano.

Come insegna il Concilio: la Chiesa «nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio»: Dei Verbum II, 8 (EV1/883; un passo su cui amava richiamare l’attenzione dom Benedetto Calati osb cam).

Nella Pacem in terris, Giovanni XXIII annovera tra i segni dei tempi «l’ingresso della donna nella vita pub­blica» e «la presa di coscienza della propria dignità». La Chiesa non è solo fonte e responsabile d’evangeliz­zazione, ma è anche sempre destinataria di essa; un’e­vangelizzazione che, come in più passi sottolinea il Concilio, può venire anche dagli «altri», in una parola: dalla «profezia straniera».

E, rispetto all’attuale struttura della Chiesa, le don­ne, benché battezzate, sono portatrici di profezia stra­niera: straniera non all’Evangelo, né alla Tradizione, ma alle tradizioni umane, che Gesù ammoniva di non sovrapporre alla parola e comandamento di Dio (cf. Me 7,8 e Mt 15,8 citando Is 29,13). Il rischio che le co­munità dei credenti vengano non liberate a e dall’a­scolto e obbedienza alla parola di Dio, ma sottoposte a regole imposte e inventate dagli uomini, è sempre in­combente.

Questa è dunque la domanda: nella Chiesa vi è an­che una comunione di genere? E la mia risposta è: «Nella comunione che la Chiesa è, non c’è - ancora - una vera e piena comunione di genere».

Le autorità ecclesiastiche cattoliche sono molto sensibili a difendere il senso e il significato della diffe­renza tra uomini e donne. Senza entrare nella disputa se si possa parlare di una «teoria gender» e come que­sta vada eventualmente intesa, va senza dubbio rico­nosciuto il valore antropologico della differenza entro il genere umano. Ma la questione è: la differenza di genere significa che uomini e donne debbono spartirsi gli ambiti d’azione, fare cose diverse o che sono chia­mati (per mandato creazionale e di Gesù) a fare «insie­me» le stesse cose, portando nella creazione del mondo e nella vita della Chiesa la ricchezza dialogica di que­sta differenza?

E, in particolare nella Chiesa, le cose che possono/debbono fare gli uomini sono: impersonare Cristo ca­po, esercitare l’autorità, evangelizzare, guidare le co­munità? E le donne? Quali sarebbero i loro compiti specifici? La difficoltà di questa risposta segnala come essere una donna nella Chiesa sia un «problema», una «varianza» cui bisogna trovare collocazione.

Vediamo donde scaturisca tale situazione parados­sale, quali siano i nodi di questo problema, che cosa questo comporti, se e come si possa rimediare.

Parliamo del problema mentre papa Francesco ha aperto una nuova fase e un nuovo orizzonte nominan­do una commissione per esaminare la questione della possibilità di conferimento del diaconato alle donne, dopo molti interventi in cui aveva segnalato che il pro­blema della valorizzazione delle donne nella Chiesa esiste e che si debbono trovare soluzioni, ferma restan­do l’esclusione dal ministero sacerdotale. Il che non è un piccolo particolare.

 

Un’esclusione non indifferente

II nostro tema è la comunione di genere nella Chie­sa, non l’ordinazione sacerdotale delle donne. E però molto difficile trattare della comunione di genere nella Chiesa senza cozzare contro il muro che fa da barriera all’ordinazione «sacerdotale» (su questo problematico concetto si tornerà più avanti) delle donne, costituito dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994.9

A pena di rinunciare a pensare e interrogarsi a tutto tondo e senza preclusioni, non si può evitare che la ri­flessione sfiori o intersechi anche temi resi «tabù» da quel «muro». Anche se secondo autorevolissimi inter­preti non è formalmente irreformabile,10 esso agisce però come se lo fosse: a distanza di soli vent’anni è im­pensabile che possa venire superato.

E, al contrario, il pronunciamento papale investe anche il tema del conferimento del diaconato alle don­ne, del quale è invece lecito parlare. Che sia un «muro attivo» era già emerso nel 2009, quando nel motu pro­prio Omnium in mente del 26 ottobre, Benedetto XVI declassò il diaconato, separandolo nettamente dai gra­di «sacerdotali» dell’ordine, ossia presbiterato ed epi­scopato.11

Qualcuno - ottimista — pensò che questo cambia­mento preludesse a un’apertura del diaconato12 alle donne, mantenendo la loro esclusione dall’ordine sa­cro. Più plausibilmente si trattò di distinguere bene i diaconi permanenti (sposati) dal clero vero e proprio, ottenendo anche una cautela aggiuntiva nell’improba­bile caso di una futura ammissione delle donne.

Ma, di nuovo sulla scorta di un’importante distin­zione kantiana, è lecito interpretare tale pronuncia­mento come Grenze, confine (che vieta di andare oltre­confine, ma non di sporgervisi) e non come invalicabi­le barriera (Schranké).13 Del resto, secondo il parere espresso nel 1976 dalla Pontificia commissione biblica, guardando al Nuovo Testamento «i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne».14

Perché parlando delle donne nella Chiesa non si può non intersecare la questione dell’esclusione delle donne dal ministero? Perché tale esclusione ha effetti a cascata inquietanti, che disegnano una separazione non (solo) tra clero e laici, ma entro il popolo di Dio.

Limitarsi al diaconato non mette al riparo da tale confronto. Perché si apre una duplice questione. Da un lato, il diaconato è stato concepito sempre in conti­nuità con i due gradi superiori dell’ordine (tanto che, almeno formalmente, esistono i cardinali diaconi); dall’altro, come già menzionato, è aperta la discussio­ne sul valore da attribuire al diaconato femminile dei primi secoli (ordinazione o benedizione per uno speci­fico servizio femminile?) a partire dal significato stesso del termine «diacono» nel Nuovo Testamento, in par­ticolare quando venga attribuito alle donne. Se in Ro­mani 16,1 leggiamo nell’originale greco di Febe, una sorella oysan diakonon tes ekklesias tes en Kegkkreais, nella nuova traduzione italiana CEI leggiamo di Febe «“a servizio” della Chiesa di Cenere».

L’antica formula «lex orandi — lex credendi»15 (la legge della preghiera è la legge del credere) stabilisce una relazione di reciproco rispecchiamento tra il culto e la fede. Ma, se guardiamo alla liturgia, non troviamo alcun ruolo o atto che sia riservato alle donne (da quando, essendo stato abbandonato il rito del battesi­mo per immersione, non vi è più stata necessità di assi­stenti — diaconesse — per il battesimo delle donne), ma solo atti e ruoli dai quali sono escluse.

 

Un paradosso e le motivazioni del «no»

Una liturgia può essere celebrata senza alcuna don­na. Se tutte le donne morissero, la liturgia potrebbe essere celebrata, i ministeri conferiti e la vita ecclesiale proseguire in pienezza (almeno fino all’estinzione degli umani). Ma se morissero tutti gli uomini, le battezzate non potrebbero più avere una vita sacramentale piena. Una riflessione paradossale, ma illuminante.

La questione (e tanto meno la soluzione della stessa) non è però trovare ruoli liturgici esclusivi per le donne, che ne rendano indispensabile la presenza per le cele­brazioni sacramentali; è piuttosto il prender sul serio Galati 3,28: «Non c’è più giudeo e greco, schiavo o libe­ro, uomo e donna, perché tutti siete uno in Cristo Ge­sù». Non per negare le differenze umane tra uomini e donne, tra giudei e greci e ancor meno tra schiavi (da li­berare!) e liberi (da responsabilizzare per la liberazione degli schiavi), ma per riconoscere il comune battesimo come equiparante nell’assemblea ecclesiale. E, insieme, si tratta di prender sul serio che il battesimo conferisce il sacerdozio fondamentale, al servizio del quale ad alcuni è conferito il sacerdozio (appunto) ministeriale.

Per focalizzare le questioni è bene provare sempre a dire de «l’uomo» quanto si dice de «la donna». Chi si pone il problema del posto dell’uomo nella Chiesa? Ep­pure, solo a una minoranza dei battezzati viene conferi­to il ministero. Non si può dire che il posto dell’uomo nella Chiesa sia l’esercizio del ministero ordinato. Ma il fatto è che i battezzati non vengono «definiti» in primo luogo dalla loro appartenenza al sesso maschile, bensì dalla loro appartenenza al genere umano e dal loro in­serimento nel corpo mistico di Cristo.

Mentre le battezzate sono definite dalla loro appar­tenenza al sesso femminile. Nessuno si chiede quale sia il «genio» specifico degli uomini o quale il loro posto nella Chiesa. Tutto questo rivela che «la donna» è «guardata» da uno sguardo maschile che, se non si chiede «man hu?» («che cos’è questo?»: Es 16,15, di fronte alla manna), la vede comunque come «altra». Lo sguardo ecclesiale sulle donne è ancora, anche quando benevolo, dall’interno dell’androcentrismo. Dal quale occorre fare un cammino esodico di libera­zione con l’aiuto non de «la donna» ma delle donne concrete, che sono delle persone e sono delle «guar­danti».

Le motivazioni dell’esclusione delle donne dal mi­nistero ordinato sono riconducibili a tre ordini princi­pali: storico (Gesù non ha ordinato donne; vi è una tradizione ecclesiastica ininterrotta che le ha escluse); teologico-simbolico (le donne non possono rappresen­tare Gesù come sposo della Chiesa nella celebrazione eucaristica); antropologico (le donne sono per natura inferiori e rappresentano nella società un’umanità su­bordinata; non possono rappresentare degnamente il Cristo-capo ed esercitare autorità).

Quest’ultima è in realtà la motivazione più impor­tante e decisiva (richiamata anche da Tommaso d’Aquino); con ogni evidenza, non più plausibile attual­mente.

Parliamo del problema mentre (prescindendo dalle regine, in quanto ereditano il titolo), ci sono 14 donne presidenti o capi di governo su 196 paesi del mondo (5 prime ministre e 9 capi di stato). Poche? Però una don­na è primo ministro nel Regno Unito; una è cancellie­re della Germania; un’altra è candidata a diventare presidente degli Stati Uniti. Alcune altre ricoprono in­carichi di grande importanza politica e simbolica (Aung San Suu Kyi; Christine Lagarde del Fondo mo­netario internazionale e molte altre). Come negare che le donne possano incarnare autorevolezza e autorità?

 

Un’esclusione non indifferente

Infatti, dopo secoli in cui le ragioni per escludere le donne sono state principalmente di tipo negativo (quello che non potevano fare), attualmente la ragione viene trovata in positivo in un’alternatività del loro ca­risma. Si dice - non a torto - che nella Chiesa vi è du­plice principio: petrino - consistente nell’esercizio del sacerdozio, dell’apostolato e dell’autorità - e mariano.

Quest’ultimo rimanda a Maria che non esercitò uf­fici, ma è alla base e al cuore della vita della Chiesa, presente (con altre donne) insieme agli apostoli alla Pentecoste (cf. At 1,14 e 2,1). A parte il caso unico e ir­ripetibile della madre del Signore, è difficile definire in che cosa consista tale principio nel suo esercizio con­creto: nel silenzio e nel tenere in cuore, nella vita d’o­razione e contemplazione? Nell’esercizio della cura, come Maria che visitò Elisabetta? Nella maternità spi­rituale verso gli apostoli, come Maria cui Gesù diede «in adozione» Giovanni (cf. Giovanni 19,28)?

Ciò che comunque va posto in questione è l’asse­gnazione del principio petrino all’area degli uomini e di quello mariano all’area delle donne. Entrambi i principi possono e debbono essere vissuti da tutti i bat­tezzati. Sì, anche quello petrino: giacché tutti i battez­zati sono partecipi del munus regale, profetico e sacer­dotale. Che poi alcuni ricevano un ministero a servizio del sacerdozio comune è una specificazione particola­re di tale principio.

L’analisi delle motivazioni dell’esclusione dall’ordi­nazione sacerdotale fornisce, oltre la specificità del ca­so, degli utili indizi per la prospettiva più generale di ripensamento della vita ecclesiale.

Quali sono infatti i nodi profondi sottesi a tale si­tuazione?

Il primo nodo, come si è menzionato, rinvia al sen­so dell’applicazione del criterio storico. Per il ministe­ro delle donne si dice: è una tradizione millenaria e non vi è traccia di donne «ordinate» nella Chiesa delle origini. Ma la Chiesa ha cambiato molte strutture e prassi nel corso dei secoli. Dall’invenzione del diaco­nato (cf. At 6), alla successiva tripartizione in gradi del ministero (diaconato, presbiterato, episcopato); all’in­troduzione dell’obbligatorietà del celibato; alla moda­lità d’elezione dei vescovi e del vescovo di Roma. A ta­cere dalla novità di Paolo che apre ai gentili senza ri­chiedere loro l’adesione alla Legge. Cose non margi­nali. Perché mai l’unica cosa intangibile sarebbe la maschilità dei ministri?

La seconda motivazione è di ordine teologico/sim­bolico: il ministro «sacro» agisce nella persona di Cri­sto «capo». Può rappresentare Cristo, come sposo del­la Chiesa che offre se stesso per lei, solo un uomo. Quattro nodi sono qui in gioco.

Il primo nodo è rappresentato dall’intreccio tra sa­cro, sacerdozio e sacrificio.16 In primo luogo, va men­zionata la sacerdotalizzazione del ministero, ignota al Nuovo Testamento e alla Chiesa delle origini e assai discutibile; essa si collega alla visione dell’eucaristia come «sacrificio» più che come mensa, spezzare il pa­ne, come quel «mangiare insieme» (synesthiein) in cui, secondo il grande esegeta cattolico Franz Mussner, consiste l’essenza del cristianesimo.17 Infatti gli «altari» cristiani conservano la tovaglia, propria della mensa e non dell’ara sacrificale.

Parallela e sinergica con la sacerdotalizzazione del ministero è la bagattellizzazione del «sacerdozio» co­mune dei fedeli, senza il quale non vi è sacerdozio mi­nisteriale (spesso nominato meno propriamente «mini­stero sacerdotale»). Entrambi i nodi rinviano alla que­stione di fondo del senso da dare entro il cristianesimo al concetto di «sacro» cui si collega quello di sacerdo­zio, nonostante con la Pasqua di Gesù si sia squarciato il velo del tempio (cf. Mt 27,51), significando la fine della prassi sacrificale e del tempio come unico luogo, separato, della presenza di Dio.

 

La simbolizzazione sessuata

Il quarto nucleo si riferisce al tema della rappresen­tanza, in duplice declinazione. Da un lato, la possibili­tà che solo un uomo — e non una donna - rappresenti Cristo, pone la questione: perché Gesù era di sesso maschile o perché solo gli uomini, in quanto sesso do­minante, possono rappresentare il suo essere capo? A questo è già stato (invano) contro-argomentato che le donne oggi possono rappresentare l’autorità; che il Risorto non può esser legato alla sessuazione; che, se le donne non possono identificarsi nel Risorto, non sa­rebbero neppure salvate in lui.

Il secondo aspetto è se il presidente della celebra­zione agisca «in persona Christi» o non, invece, «in persona Ecclesiae». Della Chiesa si dice metaforica­mente che è la sposa (tra altre metafore: popolo di Dio, corpo di Cristo, sacramento).18 Ma il volto di questa sposa è fatto di soli uomini. Non va certamente propo­sta una simbolizzazione sessuale rovesciata: dato che la Chiesa è sposa, solo le donne possono rappresentar­la (giacché è il criterio della simbolizzazione sessuale che va superato).

Ma, soprattutto: anche restando all’interno di una concezione sacerdotale del ministero sacrificale dell’eucaristia e dell’agire in persona Christi da parte del presi­dente di quest’ultima, vi è un’importante distinzione da fare. Severino Dianich riconosceva più di trent’anni fa che la questione dell’ordinazione della donna è un «grave, attuale e urgente problema ecclesiale».19

Richiamando sulla questione la dichiarazione Inter insigniores della Congregazione per la dottrina della fede,20 egli osserva che tutta la questione risulta impo­stata in rapporto al «sacerdozio» e non al ministero ordinato globalmente inteso. Ma il ministero non con­siste unicamente nella rappresentazione di Cristo, in particolare nell’eucaristia come memoriale del Cristo che dà la vita per la sua sposa. Per cui «se deve valere la logica della rappresentazione simbolica, essa esclude la donna dalla presidenza eucaristica, non da tutto il ministero ordinato».21

Colpisce, nella Chiesa cattolica (ma anche in rea­zioni che si ebbero nel 1984 nella Chiesa anglicana in occasione dell’ordinazione delle prime presbitere), la «centralità» della questione. L’esclusione delle donne appare un principio «stantis aut cadentis Ecclesiae». Con una logica sillogistica un po’ truffaldìna, volutamente provocatoria ma che deve far riflettere, si po­trebbe rovesciare la considerazione: se la Chiesa «crol­la» con l’ammissione delle donne al ministero, signifi­ca che la Chiesa trova un suo fondamento nella loro esclusione.

La questione è teologica ed ecclesiale, perché, pur in un contesto culturale patriarcale e androcentrico, il messaggio biblico sull’essere umano uomo-donna e le figure bibliche di donne non configurano una subordi­nazione; perché, ancor più, il messaggio di Gesù e la sequela delle discepole, così come le testimonianze re­lative alle comunità delle origini, attestano una novità radicale quanto al superamento della subordinazione delle donne.

La questione è antropologica e culturale22 perché la collocazione delle donne nella Chiesa e nelle religioni sottende una precisa, assai problematica visione dell’essere umano, culturalmente da tempo superata, della quale fa parte l’antico retaggio del reciproco re­spingimento tra donna e «sacro». Sul piano culturale va rilevato, infatti, che la stragrande maggioranza del­le religioni (che pure non basano questo su ragioni teo­logiche, storiche e simboliche analoghe a quelle richia­mate dalla Chiesa) riservano l’esercizio dell’autorità agli uomini23 (come gli incontri interreligiosi di pre­ghiera evidenziano).

Sul piano antropologico si è rinviati al tabù che se­para la donna, dotata della potenza naturale della ri- produzione, dal potere: sacro e politico insieme (tra loro arcaicamente e strettamente legati).24

 

 

 

Oltre le rivendicazioni, per il bene della Chiesa

La questione è politica perché l’esclusione delle donne dall’esercizio d’autorità in ambito religioso lancia un messaggio politico di conferma e rilancio dell’assoggettamento cui miliardi di donne nei paesi non evo­luti sono sottoposte. Parliamo mentre — secondo i dati ISTAT - nel 2015 il 35% delle donne nel mondo ha subito una violenza. Nel 2015, 128 donne uccise in Italia. Dall’inizio del 2016 ci sono stati 59 femminicidi. Non solo uccisioni di donne, ma uccisioni di esseri umani perché donne, da parte di un partner uomo o di un aggressore «di genere».

Vi sono intere aree del mondo - per lo più, ma non unicamente, nei paesi islamici - in cui le donne sono private dei diritti e libertà più elementari. La matrice della violenza contro le donne può essere rintracciata ancor oggi nella disuguaglianza dei rapporti tra uomi­ni e donne. E la stessa dichiarazione adottata dall’As­semblea generale ONU parla di violenza contro le donne come di «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una po­sizione subordinata rispetto agli uomini».

Non si può non vedere che il ruolo/non ruolo delle donne nella Chiesa ha anche un valore di importante messaggio culturale, politico, umano!

I nodi da sciogliere sono dunque:

  • La «visione» de «la donna» sul piano antropologi­co e culturale;

  • la revisione delle incrostazioni culturali che for­mano le molte tradizioni, che non vanno confuse con la Tradizione; in questo rientra anche la revisione critica della motivazione «storica» dell’esclusione delle donne;

  • la riflessione sul rapporto tra «sacro» e «sacerdo­zio» e vita sacramentale della Chiesa;

  • l’approfondimento del messaggio biblico sull’es­sere umano chiamato alla reciprocità (il «genere» è umano perché è il genere dell’armonia del maschile e del femminile, dell’aiuto derivante dall’essere recipro­camente un «di fronte», 1’ ‘ezer ke-negdo di cui parla Genesi 2,18). Corrispondersi e fronteggiarsi, guardan­dosi negli occhi, alla stessa altezza, apre al dialogo che libera dalla solitudine e dalla possibile assolutizzazione di se stessi e del proprio modo (maschile o femminile) di essere degli umani;

  • l’approfondimento della tradizione neotestamen­taria e dalla prassi della comunità delle origini, in par­ticolare per quanto riguarda le donne.

    Sono nodi che non potranno essere sciolti senza l’apporto delle donne credenti e tra loro delle teologhe. E non senza che venga fatto circolare il moltissi­mo che negli ultimi decenni hanno già prodotto e che resta per lo più confinato nel matroneo. Ci chiedono di «balconear», come papa Francesco dice che non si deve fare!

    A questo riguardo va anche menzionata, sobria­mente e senza retorica, la sofferenza delle donne per la collocazione loro riservata nella vita ecclesiale. Una sofferenza che per non poche ha portato all’allontana­mento.25 Tanto che potrebbe esser presa in seria consi­derazione l’idea che le donne esprimano coralmente il loro disagio in qualche modalità non conflittuale, ma significativa, simbolica e concreta insieme, il cui mes­saggio non possa essere ignorato.

    La richiesta delle donne di essere comprese più pie­namente in una comunione ecclesiale che sia anche di genere, non è una «rivendicazione», ma un aiuto alla Chiesa (le cui autorità sono tutte uomini, per i quali la prospettiva androcentrica è forse una ovvietà cultura­le, metabolizzata e neppure consaputa e avvertita) a camminare in fedeltà al mandato di Gesù e ad annun­ciare l’Evangelo in modo più pieno e trasparente. Il mandato di Gesù alle donne come annunciatrici della Pasqua è sufficientemente rispettato nella prassi eccle­siale attuale?

    La «promozione» da parte di papa Francesco della memoria liturgica di santa Maria Maddalena a festa (come per gli «altri» apostoli), in quanto «apostola de­gli apostoli» è stata subito insidiata dalla traduzione del nuovo prefazio proprio.

    Se il testo latino recita «Et eam apostolatus officio coram apostolis [Christus] honoravit», la traduzione suona «la onorò con l’ufficio dell’apostolato verso gli apostoli». Ma in latino «coram» non vuol dire «nei confronti», bensì «al cospetto». La traduzione dovreb­be essere: «La onorò con l’ufficio dell’apostolato al co­spetto degli apostoli». Una differenza non da poco: in un caso si tratta di un apostolato ristretto, indirizzato verso gli apostoli, che poi hanno il compito di annun­ciare alla Chiesa e al mondo.

    Nell’altro caso si tratta del conferimento del munus apostolico a una donna, del quale gli apostoli sono te­stimoni.

    E importante che la Chiesa — che nelle sue autori­tà è ancor «sola» (anche se Dio ha detto «non è bene che l’uomo sia solo»: Gen 2,18), non ha integrato «l’aiuto di fronte» - ascolti le donne, promuova luo­ghi (un sinodo delle donne?) e occasioni di ascolto delle donne e delle teologhe. E infine, dopo aver ascoltato, trovi il modo di parlare a due voci, di guar­dare con una visione binoculare (maschile e femmini­le, di uomini e di donne) che, sola, consente di coglie­re la profondità.

Maria Cristina Bartolomei*

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 * Il testo di M.C. Bartolomei, già docente di Filosofia morale e Filosofia della religione presso l’Università di Milano, è stato pro­nunciato durante il 2° Convegno nazionale della rete dei Viandanti tenutosi a Bologna il 22 ottobre scorso con il tema «Chiesa di che genere sei? Carismi, ministeri, servizi per un popolo di donne e di uomini». Il titolo originale della relazione era «Una comunione di genere. Il riconoscimento di una differenza nella reciprocità». Alla rete dei Viandanti partecipano: Associazione “Amici don Germa­no”, Venezia / Casa della solidarietà, Quarrata (PT) / Chicco di Senape, Torino / Chiesa oggi, Parma / Città di Dio, Invorio (NO) / Comunità del Cenacolo, Merano (BZ) / Comunità ecclesiale sant’Angelo, Milano / Dialoghi, Lugano (Svizzera) / Esodo, Me­stre (VE) / Fine Settimana, Verbania (VB) / Fraternità degli Ana- wim, Roma / Galilei, Padova / Gruppo ecumenico donne, Verba­nia (VB) / Gruppo per il pluralismo e il dialogo, Colognola ai colli (VR) / Il Concilio Vaticano II davanti a noi, Parma / fi filo, Napoli / il Gallo, Genova / Itinerari e incontri, Fonte Avellana (PU) / Koinonia, Pistoia / Laboratorio di Sinodalità Laicale (LaSiLa), Milano / l’altrapagina, Città di Castello (PG) / Lettera alla Chiesa fiorenti­na, Firenze / Matrimonio, Padova / Nota-M, Milano / Oggi la Parola, Camaldoli (AR) / Oreundici, Civitella san Paolo (RM) / Sostenere, non Sopportare (SnS), Bologna / Tempi di Fraternità, Torino.

 

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Note:

  1.      Cf. E. FlGES, 11 posto della donna nella società degli uomini, Feltrinelli, Milano 1970.

  2. Nel 1792 Immanuel,Kant pubblicava in una rivista berlinese un saggio Sul male radicale nella natura umana; l’anno successivo tale saggio diventava il primo capitolo di un’opera vertente sul rap­porto tra conoscenza razionale e conoscenza rivelata di Dìo, dal tito­lo Dìe Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft. Nel 1794 usciva una seconda edizione dell’opera stessa arricchita da molte note (anche in risposta alle reazioni che essa aveva suscitato) e da una nuova «Prefazione».

  3. In una lettera dei 4 maggio del 1793 inviata a Cari Friedrich Staudlin, docente di teologia a Göttingen, Immanuel Kant scriveva, tra l’altro, che nello scritto allegato aveva inteso «esporre aperta­mente il modo in cui credo di intendere la possibilità dell’unione della religione cristiana con la più pura ragione pratica» (I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, trad. it. a cura di O. Meo, Il me­langolo, Genova 1990, 319-320).

  4. «La rivelazione può senz’altro abbracciare entro sé anche la religione razionale pura; quest’ultima, invece, non può inglobare in sé l’aspetto storico deìla rivelazione. Di conseguenza, è possibile considerare la rivelazione come una sfera più vasta della fede, la quale contiene in sé la religione razionale pura come sfera più ri­stretta (non come due cerchi esterni l’uno all’altro, bensì come due cerchi concentrici). Il filosofo, in quanto maestro della ragione pura (che procede per semplici princìpi a priori), deve necessariamente mantenersi entro ì limiti della sfera più ristretta, e qui fare dunque astrazione da ogni esperienza»: I. KANT, La religione entro i limiti della semplice ragione, «Prefazione alla seconda edizione», a cura di V. Cicero, M. Roncoroni, Bompiani, Milano 2001, 65.

  5. La tematica del riconoscimento, inaugurata nella modernità, è attualmente molto trattata negli studi di filosofìa morale e politica, anche in relazione al multiculturalismo contemporaneo. Il riconosci­mento di nuove soggettualità e diritti è un fattore di sviluppo e inte­grazione sociale, ma il suo conseguimento presuppone il superamento di ostacoli e resistenze. Cf. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento,

    il Saggiatore, Milano 2002; P. RlCEUR, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005; C. Taylor, J. Habermas, Multicul­turalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2003.

          6 Sulla distinzione tra tradizione e tradizioni, cf. Y. CONGAR, La tradition et les traditions, Fayard, Parigi 1960; trad. it La tradizione e le tradizioni, a cura di G. AULETTA, Paoline, Roma 1961.

  1.  L’irrigidimento è comunque successivo alla riforma gregoria­na, prima, e al concilio di Trento, poi. Vi sono infatti testimonianze al tomedio evali di clero uxorato e di riconoscimento del possibile ministero delle donne. Nel 724 il prete lucchese Romualdo parlava a Telespiano, vescovo di Lucca, di sua moglie, la presbytera Ratperga chiedendo che, dopo la morte di uno dei due, Tuno o l’altra potesse­ro rimanere a servizio della Chiesa dei santi Pietro, Martino e Quiri­co dì Capannoli, ottenendo il consenso del vescovo. Cf. A. Ruberti, Quale prete per quale Chiesa. Ecclesiologia e ministero, Viator, Milano 2012, 10 (con ampia bibliografia). L’autore rimanda al più vasto saggio di G. ROSSETTI, «n matrimonio del clero nella società alto­medievale», in II matrimonio nella società altomedievale, Fondazione Centro italiano studi sull’alto medioevo, Spoleto 1977, 473-567. Il titolo di presbytera veniva verosimilmente attribuito alle mogli dei presbiteri (come accade nella tradizione ortodossa) e non significava che la donna fosse stata ordinata. Tuttavia il vescovo acconsente a che, nel caso di morte del marito, la presbytera possa continuare a esercitare un ministero nella Chiesa.

  2. Una preziosa illustrazione del nesso tra sapienza e «gesta» delle donne è offerta da M. Buber, Weisheit und Tat derFrauen{\929), in Id., Schriften zur Bibel: Martin Buber Werke II, Kòsel, München 1964, 917-924; trad. it. Martin Buber, Sapienza e opere delle donne. Per gli ottant’anni di Maria Leonardi, a cura di M. Doni, Edizioni Antilia, Treviso 2016, 19-23.

  3. Inviata alle stampe antecedentemente alla data di emanazione della suddetta lettera apostolica Dichiarazione,  una sintetica analisi delle ragioni del «no» della tradizione all’ordinazione presbiterale delle donne è rinvenibile in: M.C. BARTOLOMEI, «Donne presbitere: sono proprio ragioni quelle del “no”?», in Protestantesimo 50 (1995) 1, 37-52. 

10    I teologi si divisero nella valutazione se si trattasse o meno di un pronunciamento infallibile, in quanto ex cathedra, ovvero in quanto esprimente il magistero ordinario del collegio universale dei vescovi. Sembra condivisibile l’opinione che un pronunciamento ex cathedra debba per definizione essere esplicitamente dichiarato tale dal papa che lo pronuncia, il che non fu il caso di Ordinatio sacerdotalis, anche se certamente il papa intese chiudere «per sempre» la questione, delegittimando ogni ulteriore discussione in proposito. E fu ampiamente argomentato come non si potesse considerare ex- post come espressione del magistero ordinario dei vescovi. Si può quindi fondatamente sostenere che tale pronunciamento non sia formalmente irriformabile.

Tra i teologi autorevoli e famosi che si schierarono contro la pretesa di infallibilità di Ordinatio sacerdotalis: la Catholic Theologi- cal Society of America; Nicholas Lash, docente di Teologia, Univer­sità di Cambridge, Gran Bretagna; Francis A. Sullivan sj, docente emerito della Pontificia università gregoriana, Roma e docente ag­giunto al Boston College; Elisabeth A. Johnson, csj, docente di Teo­logia alla Fordham University, New York; Gisbert Greshake, docen­te di Teologia all’Università di Freiburg, Germania; Ann O’Hara Grafi, docente di Teologia all’Università di Seattle, Washington, USA; Peter Hùnermann, docente di Teologia all’Università di Tubinga, Germania; Sidney Cornelia Callahan, teologa, USA; David Knight, teologo, Memphis, USA.

In particolare, cf. F.A. SULLIVAN, Creative Fidelìty. Weighing and Interpreting Church Docummts (trad. it. Capire e interpretare il magistero. Una fedeltà creativa, EDB, Bologna 1997). Dello stesso autore cf. anche Magisierium. Teaching Authority in thè Catholic Church, Paulist Press, Mahwah 1983; trad. it. Il magistero della Chie­sa cattolica, Cittadella editrice, Assisi 1986. Nel settembre 1997, Sullivan criticò l’arcivescovo Bertone della Congregazione per la dottrina della fede per aver avanzato tre ipotesi a suo avviso infonda­te: 1) che una semplice dichiarazione del papa sia sufficiente a far sì che un insegnamento sia fissato come infallibile dal magistero ordi­nario e universale del collegio dei vescovi; 2) che tutte le verità «cer­tamente vere e non soggette a dubbio» siano coperte da infallibilità; 3) che per rilevare l’esistenza del consenso del collegio intemaziona­le dei vescovi sia sufficiente un consenso registrato nel passato. Os­servava Sullivan che decidere se una dottrina è coperta da infallibili­tà non è questione decidibile sul piano dottrinale, ma deve avere fondamento in un fatto «chiaramente fondato», secondo il C/C, can. 749, § 3. Non risultava chiaramente mostrato che non solo il papa, ma l’assemblea dei vescovi dell’intero mondo considerasse tale dottrina come da ritenersi definitiva per i fedeli: cf. Id., «Recent theological observations on magisteri documents and public dissento, TkeologicalStudies58(1997), 509-515.

11 Così si legge nel motu proprio Omnium in mente-. «Art. 1. Il testo del can, 1008 del Codice di diritto canonico sia modificato in modo che d’ora in poi risulti così: “Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare tìtolo, il popolo di Dio”.

Art. 2. Il can. 1009 del Codice di diritto canonico d’ora in poi avrà tre paragrafi, nel primo e nel secondo dei quali si manterrà il testo del canone vigente, mentre nel terzo il nuovo testo sia redatto in modo che il can. 1009, § 3 risulti così: “Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo capo, i diaconi invece ven­gono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità”»; EV26/1226-1229.

        Il vecchio testo dei due canoni del CIC del 1983 diceva al can. 1008: «Sacramento ordinis ex divina instituiione inter christifìdeles quidam, charactere indelebili quo signantur, constituuntur sacri mini­stri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, prò suo quisque gradu, in persona Christi capitis munera docendi, sanctijicandi et regendi adimplentes, Dei populum pascant (Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli mediante il carattere indele­bile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a pascere il popolo di Dio, adem­piendo nella persona di Cristo capo, ciascuno nel suo grado, le fun­zioni di insegnare, santificare e governare»).

Al can. 1009, § 1: «Ordines sunt episcopatus, presbyteratus et diaconatus (Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato).

Al can. 1009, § 2. Conferuntur manuum impositione et precatio­ne consecratoria, quam prò singulis gradibus libri liturgici praescribunt (Vengono conferiti mediante l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria, che i libri liturgici prescrivono per i singoli gradi»).

12     La possibilità dell’accesso delle donne al diaconato si era già arenata con la relazione della Commissione teologica intemazionale del 2003 (cf. Regno-doc. 9,2003,275), che non riuscì ad accordarsi sul problema storico e teologico dell’antico diaconato delle donne: c’era mai stato un diaconato delle donne equivalente a quello degli uomi­ni? O si era trattato di una forma di servizio non ordinata? Il canone di Nicea il quale precisa che le donne diacono sono da considerarsi laici, come va interpretato? Allude forse proprio al fatto che in secoli precedenti non era stato così? Se la cosa era pacifica che bisogno c’era di precisarla?

13 In Kant si trova la distinzione tra la nozione di limite/confine (Grenze) - che non impedisce fisicamente un oltrepassamento e può divenire una soglia - e quella barriera/confine (Sckranke) che ha la funzione di chiudere un passaggio invalicabile. Cf. I. Kant, Prolego­meni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza (1783), trad. it. a cura di P. Martinetti, M. Roncoroni, Rusconi, Milano 1995,221.

14 Pontificia Commissione Biblica, «Can Women Be Priest?», in L. SWIDLER, A. Swidler (a cura di), Women Priests: A Catholic Commentary on thè Vatican Declaration, Paulist, New York 1977, 338-446; trad. it. in Regno-att. 4,2015,415. Analogamente si esprime un documento della Catholic Biblical Association of America: «II Nuovo Testamento per quanto non decisivo in se stesso fa propen­dere per l’ammissione delle donne al sacerdozio», in The Catholic Biblcal Quarterly 41(1979), 608-613, citato da A. Piola, Donna e sa­cerdozio. Indagine storico-antropologica degli aspetti teologici della or­dinazione delle donne, EfFatà, Torino 2006, 469s.

15 Cf. H. DENZiNGER, A. SCHÓNMETZER, Enchiridion Symbolorum, §§ 238-249: « Ut legem credendi lex statuat supplicandi»; la for­mula è tratta dall’Indiculus de gratia Dei, un documento del V seco­lo, attribuito tradizionalmente a Prospero d’Aquitania.

16 Cf. al riguardo U.G.G. Derungs, M.C. BARTOLOMEI, «Sacerdozio-sacrificio: aporie e conseguenze di un circolo ermeneuti­co», in Anatemi di ieri sfide di oggi. Contrappunti di genere nella rilet­tura del concilio di Trento, a cura di M. Perroni, A. Autiero, EDB, Bologna 2011, 129-148.

  1.  Cf. F. Mussner, Dos Wesen des Christentum ist synesthiein (l’essenza del cristianesimo è synesthiein, il condividere la mensa, nda), citato in G. Ruggieri, «Dio - straniero nella Chiesa?», in Pro­testantesimo, 52(1997) 2-3, 99-127; riferimento a p. 107, nota 11.

  2. Sulla forza, i limiti e i pericoli di insistere su questa metafora, sia lecito rinviare a M.C. BARTOLOMEI, «Lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!”    (Apocalisse 22,17). Potenza e limiti di una metafora», in Passione per la teologia, a cura di C. Aiosa, F. Bosin, Effatà, Torino 2016,163-177.

  3. S. Dianich, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazio­ne ecclesiologica, Paoline, Roma 1984, 283.

  4. Sacra Congregazione per la dottrina della fede, di­chiarazione Inter insignores circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale, 15.10.1976: AAS 69 (1977), 98- 116; £75/2110.

  5. Ivi.

  6. «Allo stesso modo, l’assorbimento dell’umano nell’univocità di una figura maschile, patriarcale e onnipotente, ha condannato, nei secoli, all’oscurità e all’insignificanza la figura femminile, sentita più vicina alla natura, lasciando alla fine impoverito lo stesso ma­schio»: N. NEGRETTI, Matrimanio XLI(2016) 3, 24.

  7. Certo, pensando ai grandi monoteismi, vanno menzionate le sinagoghe alternative; le imam donne — ma per moschee riservate alle donne, dunque senza superamento della discriminazione; nel cristianesimo, le Chiese della Riforma (ma anche la Chiesa scismati­ca dei veterocattolici) da qualche decennio ammettono le donne co­me ministri, pastori, vescovi. Non la Chiesa ortodossa, nella quale però (come nella Chiesa cattolica di rito orientale) il ministero pre­sbiterale uxorato ammorbidisce l’allontanamento tra donne e «sa­cro». Non così la Chiesa cattolica di rito latino.

24 Cf. M.C.JACOBELLI, Sacerdozio, donna, celibato, Boria, Roma 1981.

25 Cf. A. MATTEO, La fuga delle quarantenni. Il diffìcile rapporto delle donne con la Chiesa, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.

Il ruolo delle donne nella vita della Chiesa.

Il tema diventa sempre più attuale e coinvolgente,

così come viene esposto in questo contributo “al femminile”

che esamina gli aspetti teologici, culturali e politici

a partire da un interrogativo fortemente provocatorio:

“Se la Chiesa ‘crolla’ con l’ammissione delle donne al ministero,

significa che la Chiesa trova un suo fondamento nella loro esclusione?”.

 

 

Buona lettura!

+ don Franco, vostro fratello vescovo

 

 
 

 


Maria Cristina Bartolomei 

La Chiesa cattolica e le donne

 Una comunione di genere?

P

er avviare correttamente la riflessione, è necessario in primo luogo cogliere la paradossalità, anzi l’assurdità implicita nell’impostazione corrente che parla del «problema delle donne nella Chie­sa». Il problema non è la posizione delle donne nella Chiesa; il problema è che la posizione delle donne nella Chiesa sia un problema. Non per dire che la questione non sussista, giacché sussiste ed è macroscopica. Ma, al contrario, per co­gliere come il solo fatto che una tale questione sussista debba inquietarci, farci rendere conto di qualche stor­tura di fondo nello sguardo stesso con cui s’inquadra la problematica.

Come mai le donne, che sono la metà del genere umano e dei battezzati, sono in posizione «differenzia­le» nella Chiesa? Differenziale, per svantaggio, rispet­to agli uomini che, invece, sono la normalità norman­te.

La risposta è d’ordine storico, culturale, simbolico. E ci rinvia alla consapevolezza dell’impronta patriar­cale e androcentrica che ha strutturato per millenni la nostra società e cultura (e, per irradiazione, universa­le), e che ancora la segna: sempre più marginalmente nei paesi evoluti, invece ancora molto pesantemente in gran parte del mondo. Nella cultura patriarcale e an­drocentrica, «le donne» sono una variante subordina­ta dell’essere umano, invece pienamente rappresenta­to dagli uomini. Di qui il problema d’individuare il lo­ro proprio, il loro posto «nella società degli uomini».1

Nella «Prefazione» alla seconda edizione dell’ope­ra di Kant La religione nei limiti della sola ragione2 è contenuta una metafora divenuta celebre, nella quale si disegna il rapporto tra rivelazione e religione razio­nale come quello di due cerchi concentrici:3 quello più ampio della rivelazione contiene in sé il cerchio più stretto della conoscenza di Dio cui si può giungere per via razionale. Il senso della sottolineatura di Kant è di difendere la «razionalità» della fede rivelata (visto che coincide con la religione razionale) e insieme tutelarne la libertà e l’eccedenza rispetto alla ragione.4

La metafora kantiana ci è utile per illustrare il rap­porto tra diverse componenti che entrano in gioco nel rapporto, asimmetrico, da un lato, tra la Chiesa e le donne e, dall’altro, tra le donne e la Chiesa (s’intende qui: cattolica, del XX-XXI secolo). La questione si compone di vari aspetti e momenti: le donne nella Chiesa oggi; le donne nella Chiesa delle origini e dei primi secoli; le donne nel Nuovo Testamento; le donne nello sguardo della Bibbia; la visione delle donne nei documenti magisteriali (che per lo più parlano de «la donna»); la posizione delle donne nella riflessione teo­logica, in particolare nella ecclesiologia; la riflessione specifica delle teologhe sulla posizione delle donne nel­la Chiesa; l’autocoscienza contemporanea delle don­ne; le donne nella società (attuale).

Tutti questi aspetti e dimensioni non si collocano affatto come cerchi concentrici, sovrapponibili con ec­cedenze; neppure si collocano tutti come cerchi che si sovrappongono almeno in parte. In certi casi costitui­scono cerchi — ossia aree di coscienza, realtà, teoria, esperienza — del tutto estranei l’una all’altra. Vi è un forte scollamento tra l’autocoscienza delle donne, i ruoli, funzioni e responsabilità che esse assumono, e, d’altra parte, il posto che nella Chiesa (cattolica) è ri­servato alle battezzate. Di più: vi è uno scollamento tra le funzioni e le diaconie che le donne svolgono di fatto nella Chiesa e il (non) conferimento a loro dei relativi ministeri, neppure di quelli laicali non ordinati, ma istituiti (lettorato, accolitato).

Pensiamo a quante suore missionarie reggono di fatto parrocchie, presiedono liturgie della Parola, bat­tezzano, assistono a funerali e matrimoni su mandato del vescovo, ma senza ordinazione (in questo caso: diaconale). Altrettanto dicasi per le assistenti pastorali (le cui competenze stanno peraltro venendo diminuite, a cominciare dalla predicazione). E un macroscopico caso di mancanza di riconoscimento? Questo è il pro­blema. Uno scollamento problematico, che papa Francesco ha ben colto.

 

Qui vedo solo uomini

Secondo quanto riportato dal sito Internet vatica­no, l’8 marzo 2016, nel corso degli esercizi spirituali predicati alla curia, p. Ermes Ronchi osm prese le mosse per la sua riflessione dal racconto evangelico di Gesù che, invitato nella casa di Simone il fariseo, rompe ogni convenzione e lascia che una donna (per tutti «la peccatrice»), pianga ai suoi piedi, e li asciughi con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato. E, di fronte alla sorpresa di Simone, Gesù

lo ammonisce: «Guarda questa donna», la quale da «peccatrice» diviene «la perdonata che ha molto amato».

Ha detto p. Ronchi: «Se Gesù domandasse anche a me “la vedi questa donna?” dovrei rispondere “no, Si­gnore, qui vedo solo uomini”. Non è molto normale questo, ammettiamolo. Dobbiamo prendere atto di un vuoto che non corrisponde alla realtà dell’umanità e della Chiesa».

«Non era così nel Vangelo», dove molte donne se­guivano e servivano Gesù, ma «al nostro seguito non le vedo», ha aggiunto il predicatore. «Gesù era sovranamente indifferente al passato di una persona, al sesso di una persona, non ragiona mai per categorie o stereoti­pi. E penso che anche Io Spirito Santo distribuisca i suoi doni senza guardare al sesso delle persone. Che cosa ci fa così paura, che dobbiamo prendere le distan­ze da questa donna e dalle altre?» ha quindi chiesto.

Una domanda aperta e impegnativa. Che richiede risposte in primo luogo antropologiche e culturali e, in armonia con queste, anche teologiche. Senza che queste ultime corrano il rischio di trincerarsi dietro a tradizio­ni,6 confondendole con «la» Tradizione, che è l’attiva e viva « traditio» attraverso il tempo della fede apostolica.

La cosa più grave non è tanto che non siano in asse l’autocoscienza delle donne e il ruolo che ora rivestono nella società (nelle società evolute, civili e democrati­che) e il posto che loro è assegnato nella Chiesa, o per dir meglio che non è loro assegnato nella Chiesa, giac­ché il loro «posto» è piuttosto costituito dalla preclu­sione a ruoli e funzioni.

Il laico è chi non è sacerdote né religioso, era la vec­chia, preconciliare definizione del laico; analogamente si potrebbe dire: qual è il posto delle donne nella Chie­sa? Il posto delle donne è di essere escluse dalla funzio­ne sacerdotale, dall’autorità, dalla titolarità e respon­sabilità dell’evangelizzazione.

Se poche settimane prima di morire, nell’agosto del 2012, il card. Carlo M. Martini osservava che la Chie­sa è in ritardo di 200 anni, per questo aspetto non solo è in ritardo, ma è tornata indietro di 2000.7 La cosa più grave, infatti, è che non sono pienamente in asse tra loro la posizione assegnata nella Chiesa alle donne, da un lato, e, dall’altro, le funzioni e i ruoli affidati alle donne da Gesù e nella comunità delle origini, e neppu­re la visione biblica sulla donna.

Pur dall’interno di una cultura androcentrica, la Bibbia apre delle fenditure che spaccano la chiusa cro­sta del patriarcato (come dimostrano Debora, giudice in Israele e le altre madri d’Israele: Miriam profetessa, Sara, Anna, Elisabetta che decide il nome del figlio, fi­no a Maria8); la prassi di Gesù e delle comunità delle origini verso le donne, attestata nel Nuovo Testamen­to (le donne integrate nella sequela; cui è affidato l’an­nuncio pasquale; titolari di apostolato, diaconato, che profetizzano), segnò una fase - purtroppo breve - di novità sovversiva rispetto alla cultura patriarcale do­minante; quest’ultima prese poi di nuovo il sopravven­to, a misura in cui la Chiesa perdeva la tensione esca­tologica e si «stabiliva», inserendosi nelle strutture so­cio-politiche del tempo.

Questo è l’aspetto più grave, giacché significa non che vengono sottratti «diritti» alle donne (che pure è cosa non irrilevante, umanamente e cristianamente, anche se ministeri e carismi sono doni e non diritti che si possano rivendicare), ma che la Chiesa si sottrae a suoi doveri di risposta fedele ai mandati di Dio.

 

Portatrici di una profezia straniera

    Ma proprio perciò questo aspetto è anche quello che più dà slancio, fondamento e speranza a un movi­mento di cambiamento. La Chiesa infatti è chiamata a camminare nella storia cogliendo i segni dei tempi e rispondendovi guidata non da motivazioni esterne, ma dalla più profonda comprensione della parola di Dio, che significa anche sapiente messa in relazione di quest’ultima con i segni dei tempi, con l’approfondi­mento della comprensione dell’umano.

Come insegna il Concilio: la Chiesa «nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio»: Dei Verbum II, 8 (EV1/883; un passo su cui amava richiamare l’attenzione dom Benedetto Calati osb cam).

Nella Pacem in terris, Giovanni XXIII annovera tra i segni dei tempi «l’ingresso della donna nella vita pub­blica» e «la presa di coscienza della propria dignità». La Chiesa non è solo fonte e responsabile d’evangeliz­zazione, ma è anche sempre destinataria di essa; un’e­vangelizzazione che, come in più passi sottolinea il Concilio, può venire anche dagli «altri», in una parola: dalla «profezia straniera».

E, rispetto all’attuale struttura della Chiesa, le don­ne, benché battezzate, sono portatrici di profezia stra­niera: straniera non all’Evangelo, né alla Tradizione, ma alle tradizioni umane, che Gesù ammoniva di non sovrapporre alla parola e comandamento di Dio (cf. Me 7,8 e Mt 15,8 citando Is 29,13). Il rischio che le co­munità dei credenti vengano non liberate a e dall’a­scolto e obbedienza alla parola di Dio, ma sottoposte a regole imposte e inventate dagli uomini, è sempre in­combente.

Questa è dunque la domanda: nella Chiesa vi è an­che una comunione di genere? E la mia risposta è: «Nella comunione che la Chiesa è, non c’è - ancora - una vera e piena comunione di genere».

Le autorità ecclesiastiche cattoliche sono molto sensibili a difendere il senso e il significato della diffe­renza tra uomini e donne. Senza entrare nella disputa se si possa parlare di una «teoria gender» e come que­sta vada eventualmente intesa, va senza dubbio rico­nosciuto il valore antropologico della differenza entro il genere umano. Ma la questione è: la differenza di genere significa che uomini e donne debbono spartirsi gli ambiti d’azione, fare cose diverse o che sono chia­mati (per mandato creazionale e di Gesù) a fare «insie­me» le stesse cose, portando nella creazione del mondo e nella vita della Chiesa la ricchezza dialogica di que­sta differenza?

E, in particolare nella Chiesa, le cose che possono/debbono fare gli uomini sono: impersonare Cristo ca­po, esercitare l’autorità, evangelizzare, guidare le co­munità? E le donne? Quali sarebbero i loro compiti specifici? La difficoltà di questa risposta segnala come essere una donna nella Chiesa sia un «problema», una «varianza» cui bisogna trovare collocazione.

Vediamo donde scaturisca tale situazione parados­sale, quali siano i nodi di questo problema, che cosa questo comporti, se e come si possa rimediare.

Parliamo del problema mentre papa Francesco ha aperto una nuova fase e un nuovo orizzonte nominan­do una commissione per esaminare la questione della possibilità di conferimento del diaconato alle donne, dopo molti interventi in cui aveva segnalato che il pro­blema della valorizzazione delle donne nella Chiesa esiste e che si debbono trovare soluzioni, ferma restan­do l’esclusione dal ministero sacerdotale. Il che non è un piccolo particolare.

 

Un’esclusione non indifferente

II nostro tema è la comunione di genere nella Chie­sa, non l’ordinazione sacerdotale delle donne. E però molto difficile trattare della comunione di genere nella Chiesa senza cozzare contro il muro che fa da barriera all’ordinazione «sacerdotale» (su questo problematico concetto si tornerà più avanti) delle donne, costituito dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994.9

A pena di rinunciare a pensare e interrogarsi a tutto tondo e senza preclusioni, non si può evitare che la ri­flessione sfiori o intersechi anche temi resi «tabù» da quel «muro». Anche se secondo autorevolissimi inter­preti non è formalmente irreformabile,10 esso agisce però come se lo fosse: a distanza di soli vent’anni è im­pensabile che possa venire superato.

E, al contrario, il pronunciamento papale investe anche il tema del conferimento del diaconato alle don­ne, del quale è invece lecito parlare. Che sia un «muro attivo» era già emerso nel 2009, quando nel motu pro­prio Omnium in mente del 26 ottobre, Benedetto XVI declassò il diaconato, separandolo nettamente dai gra­di «sacerdotali» dell’ordine, ossia presbiterato ed epi­scopato.11

Qualcuno - ottimista — pensò che questo cambia­mento preludesse a un’apertura del diaconato12 alle donne, mantenendo la loro esclusione dall’ordine sa­cro. Più plausibilmente si trattò di distinguere bene i diaconi permanenti (sposati) dal clero vero e proprio, ottenendo anche una cautela aggiuntiva nell’improba­bile caso di una futura ammissione delle donne.

Ma, di nuovo sulla scorta di un’importante distin­zione kantiana, è lecito interpretare tale pronuncia­mento come Grenze, confine (che vieta di andare oltre­confine, ma non di sporgervisi) e non come invalicabi­le barriera (Schranké).13 Del resto, secondo il parere espresso nel 1976 dalla Pontificia commissione biblica, guardando al Nuovo Testamento «i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne».14

Perché parlando delle donne nella Chiesa non si può non intersecare la questione dell’esclusione delle donne dal ministero? Perché tale esclusione ha effetti a cascata inquietanti, che disegnano una separazione non (solo) tra clero e laici, ma entro il popolo di Dio.

Limitarsi al diaconato non mette al riparo da tale confronto. Perché si apre una duplice questione. Da un lato, il diaconato è stato concepito sempre in conti­nuità con i due gradi superiori dell’ordine (tanto che, almeno formalmente, esistono i cardinali diaconi); dall’altro, come già menzionato, è aperta la discussio­ne sul valore da attribuire al diaconato femminile dei primi secoli (ordinazione o benedizione per uno speci­fico servizio femminile?) a partire dal significato stesso del termine «diacono» nel Nuovo Testamento, in par­ticolare quando venga attribuito alle donne. Se in Ro­mani 16,1 leggiamo nell’originale greco di Febe, una sorella oysan diakonon tes ekklesias tes en Kegkkreais, nella nuova traduzione italiana CEI leggiamo di Febe «“a servizio” della Chiesa di Cenere».

L’antica formula «lex orandi — lex credendi»15 (la legge della preghiera è la legge del credere) stabilisce una relazione di reciproco rispecchiamento tra il culto e la fede. Ma, se guardiamo alla liturgia, non troviamo alcun ruolo o atto che sia riservato alle donne (da quando, essendo stato abbandonato il rito del battesi­mo per immersione, non vi è più stata necessità di assi­stenti — diaconesse — per il battesimo delle donne), ma solo atti e ruoli dai quali sono escluse.

 

Un paradosso e le motivazioni del «no»

Una liturgia può essere celebrata senza alcuna don­na. Se tutte le donne morissero, la liturgia potrebbe essere celebrata, i ministeri conferiti e la vita ecclesiale proseguire in pienezza (almeno fino all’estinzione degli umani). Ma se morissero tutti gli uomini, le battezzate non potrebbero più avere una vita sacramentale piena. Una riflessione paradossale, ma illuminante.

La questione (e tanto meno la soluzione della stessa) non è però trovare ruoli liturgici esclusivi per le donne, che ne rendano indispensabile la presenza per le cele­brazioni sacramentali; è piuttosto il prender sul serio Galati 3,28: «Non c’è più giudeo e greco, schiavo o libe­ro, uomo e donna, perché tutti siete uno in Cristo Ge­sù». Non per negare le differenze umane tra uomini e donne, tra giudei e greci e ancor meno tra schiavi (da li­berare!) e liberi (da responsabilizzare per la liberazione degli schiavi), ma per riconoscere il comune battesimo come equiparante nell’assemblea ecclesiale. E, insieme, si tratta di prender sul serio che il battesimo conferisce il sacerdozio fondamentale, al servizio del quale ad alcuni è conferito il sacerdozio (appunto) ministeriale.

Per focalizzare le questioni è bene provare sempre a dire de «l’uomo» quanto si dice de «la donna». Chi si pone il problema del posto dell’uomo nella Chiesa? Ep­pure, solo a una minoranza dei battezzati viene conferi­to il ministero. Non si può dire che il posto dell’uomo nella Chiesa sia l’esercizio del ministero ordinato. Ma il fatto è che i battezzati non vengono «definiti» in primo luogo dalla loro appartenenza al sesso maschile, bensì dalla loro appartenenza al genere umano e dal loro in­serimento nel corpo mistico di Cristo.

Mentre le battezzate sono definite dalla loro appar­tenenza al sesso femminile. Nessuno si chiede quale sia il «genio» specifico degli uomini o quale il loro posto nella Chiesa. Tutto questo rivela che «la donna» è «guardata» da uno sguardo maschile che, se non si chiede «man hu?» («che cos’è questo?»: Es 16,15, di fronte alla manna), la vede comunque come «altra». Lo sguardo ecclesiale sulle donne è ancora, anche quando benevolo, dall’interno dell’androcentrismo. Dal quale occorre fare un cammino esodico di libera­zione con l’aiuto non de «la donna» ma delle donne concrete, che sono delle persone e sono delle «guar­danti».

Le motivazioni dell’esclusione delle donne dal mi­nistero ordinato sono riconducibili a tre ordini princi­pali: storico (Gesù non ha ordinato donne; vi è una tradizione ecclesiastica ininterrotta che le ha escluse); teologico-simbolico (le donne non possono rappresen­tare Gesù come sposo della Chiesa nella celebrazione eucaristica); antropologico (le donne sono per natura inferiori e rappresentano nella società un’umanità su­bordinata; non possono rappresentare degnamente il Cristo-capo ed esercitare autorità).

Quest’ultima è in realtà la motivazione più impor­tante e decisiva (richiamata anche da Tommaso d’Aquino); con ogni evidenza, non più plausibile attual­mente.

Parliamo del problema mentre (prescindendo dalle regine, in quanto ereditano il titolo), ci sono 14 donne presidenti o capi di governo su 196 paesi del mondo (5 prime ministre e 9 capi di stato). Poche? Però una don­na è primo ministro nel Regno Unito; una è cancellie­re della Germania; un’altra è candidata a diventare presidente degli Stati Uniti. Alcune altre ricoprono in­carichi di grande importanza politica e simbolica (Aung San Suu Kyi; Christine Lagarde del Fondo mo­netario internazionale e molte altre). Come negare che le donne possano incarnare autorevolezza e autorità?

 

Un’esclusione non indifferente

Infatti, dopo secoli in cui le ragioni per escludere le donne sono state principalmente di tipo negativo (quello che non potevano fare), attualmente la ragione viene trovata in positivo in un’alternatività del loro ca­risma. Si dice - non a torto - che nella Chiesa vi è du­plice principio: petrino - consistente nell’esercizio del sacerdozio, dell’apostolato e dell’autorità - e mariano.

Quest’ultimo rimanda a Maria che non esercitò uf­fici, ma è alla base e al cuore della vita della Chiesa, presente (con altre donne) insieme agli apostoli alla Pentecoste (cf. At 1,14 e 2,1). A parte il caso unico e ir­ripetibile della madre del Signore, è difficile definire in che cosa consista tale principio nel suo esercizio con­creto: nel silenzio e nel tenere in cuore, nella vita d’o­razione e contemplazione? Nell’esercizio della cura, come Maria che visitò Elisabetta? Nella maternità spi­rituale verso gli apostoli, come Maria cui Gesù diede «in adozione» Giovanni (cf. Giovanni 19,28)?

Ciò che comunque va posto in questione è l’asse­gnazione del principio petrino all’area degli uomini e di quello mariano all’area delle donne. Entrambi i principi possono e debbono essere vissuti da tutti i bat­tezzati. Sì, anche quello petrino: giacché tutti i battez­zati sono partecipi del munus regale, profetico e sacer­dotale. Che poi alcuni ricevano un ministero a servizio del sacerdozio comune è una specificazione particola­re di tale principio.

L’analisi delle motivazioni dell’esclusione dall’ordi­nazione sacerdotale fornisce, oltre la specificità del ca­so, degli utili indizi per la prospettiva più generale di ripensamento della vita ecclesiale.

Quali sono infatti i nodi profondi sottesi a tale si­tuazione?

Il primo nodo, come si è menzionato, rinvia al sen­so dell’applicazione del criterio storico. Per il ministe­ro delle donne si dice: è una tradizione millenaria e non vi è traccia di donne «ordinate» nella Chiesa delle origini. Ma la Chiesa ha cambiato molte strutture e prassi nel corso dei secoli. Dall’invenzione del diaco­nato (cf. At 6), alla successiva tripartizione in gradi del ministero (diaconato, presbiterato, episcopato); all’in­troduzione dell’obbligatorietà del celibato; alla moda­lità d’elezione dei vescovi e del vescovo di Roma. A ta­cere dalla novità di Paolo che apre ai gentili senza ri­chiedere loro l’adesione alla Legge. Cose non margi­nali. Perché mai l’unica cosa intangibile sarebbe la maschilità dei ministri?

La seconda motivazione è di ordine teologico/sim­bolico: il ministro «sacro» agisce nella persona di Cri­sto «capo». Può rappresentare Cristo, come sposo del­la Chiesa che offre se stesso per lei, solo un uomo. Quattro nodi sono qui in gioco.

Il primo nodo è rappresentato dall’intreccio tra sa­cro, sacerdozio e sacrificio.16 In primo luogo, va men­zionata la sacerdotalizzazione del ministero, ignota al Nuovo Testamento e alla Chiesa delle origini e assai discutibile; essa si collega alla visione dell’eucaristia come «sacrificio» più che come mensa, spezzare il pa­ne, come quel «mangiare insieme» (synesthiein) in cui, secondo il grande esegeta cattolico Franz Mussner, consiste l’essenza del cristianesimo.17 Infatti gli «altari» cristiani conservano la tovaglia, propria della mensa e non dell’ara sacrificale.

Parallela e sinergica con la sacerdotalizzazione del ministero è la bagattellizzazione del «sacerdozio» co­mune dei fedeli, senza il quale non vi è sacerdozio mi­nisteriale (spesso nominato meno propriamente «mini­stero sacerdotale»). Entrambi i nodi rinviano alla que­stione di fondo del senso da dare entro il cristianesimo al concetto di «sacro» cui si collega quello di sacerdo­zio, nonostante con la Pasqua di Gesù si sia squarciato il velo del tempio (cf. Mt 27,51), significando la fine della prassi sacrificale e del tempio come unico luogo, separato, della presenza di Dio.

 

La simbolizzazione sessuata

Il quarto nucleo si riferisce al tema della rappresen­tanza, in duplice declinazione. Da un lato, la possibili­tà che solo un uomo — e non una donna - rappresenti Cristo, pone la questione: perché Gesù era di sesso maschile o perché solo gli uomini, in quanto sesso do­minante, possono rappresentare il suo essere capo? A questo è già stato (invano) contro-argomentato che le donne oggi possono rappresentare l’autorità; che il Risorto non può esser legato alla sessuazione; che, se le donne non possono identificarsi nel Risorto, non sa­rebbero neppure salvate in lui.

Il secondo aspetto è se il presidente della celebra­zione agisca «in persona Christi» o non, invece, «in persona Ecclesiae». Della Chiesa si dice metaforica­mente che è la sposa (tra altre metafore: popolo di Dio, corpo di Cristo, sacramento).18 Ma il volto di questa sposa è fatto di soli uomini. Non va certamente propo­sta una simbolizzazione sessuale rovesciata: dato che la Chiesa è sposa, solo le donne possono rappresentar­la (giacché è il criterio della simbolizzazione sessuale che va superato).

Ma, soprattutto: anche restando all’interno di una concezione sacerdotale del ministero sacrificale dell’eucaristia e dell’agire in persona Christi da parte del presi­dente di quest’ultima, vi è un’importante distinzione da fare. Severino Dianich riconosceva più di trent’anni fa che la questione dell’ordinazione della donna è un «grave, attuale e urgente problema ecclesiale».19

Richiamando sulla questione la dichiarazione Inter insigniores della Congregazione per la dottrina della fede,20 egli osserva che tutta la questione risulta impo­stata in rapporto al «sacerdozio» e non al ministero ordinato globalmente inteso. Ma il ministero non con­siste unicamente nella rappresentazione di Cristo, in particolare nell’eucaristia come memoriale del Cristo che dà la vita per la sua sposa. Per cui «se deve valere la logica della rappresentazione simbolica, essa esclude la donna dalla presidenza eucaristica, non da tutto il ministero ordinato».21

Colpisce, nella Chiesa cattolica (ma anche in rea­zioni che si ebbero nel 1984 nella Chiesa anglicana in occasione dell’ordinazione delle prime presbitere), la «centralità» della questione. L’esclusione delle donne appare un principio «stantis aut cadentis Ecclesiae». Con una logica sillogistica un po’ truffaldìna, volutamente provocatoria ma che deve far riflettere, si po­trebbe rovesciare la considerazione: se la Chiesa «crol­la» con l’ammissione delle donne al ministero, signifi­ca che la Chiesa trova un suo fondamento nella loro esclusione.

La questione è teologica ed ecclesiale, perché, pur in un contesto culturale patriarcale e androcentrico, il messaggio biblico sull’essere umano uomo-donna e le figure bibliche di donne non configurano una subordi­nazione; perché, ancor più, il messaggio di Gesù e la sequela delle discepole, così come le testimonianze re­lative alle comunità delle origini, attestano una novità radicale quanto al superamento della subordinazione delle donne.

La questione è antropologica e culturale22 perché la collocazione delle donne nella Chiesa e nelle religioni sottende una precisa, assai problematica visione dell’essere umano, culturalmente da tempo superata, della quale fa parte l’antico retaggio del reciproco re­spingimento tra donna e «sacro». Sul piano culturale va rilevato, infatti, che la stragrande maggioranza del­le religioni (che pure non basano questo su ragioni teo­logiche, storiche e simboliche analoghe a quelle richia­mate dalla Chiesa) riservano l’esercizio dell’autorità agli uomini23 (come gli incontri interreligiosi di pre­ghiera evidenziano).

Sul piano antropologico si è rinviati al tabù che se­para la donna, dotata della potenza naturale della ri- produzione, dal potere: sacro e politico insieme (tra loro arcaicamente e strettamente legati).24

 

 

 

Oltre le rivendicazioni, per il bene della Chiesa

La questione è politica perché l’esclusione delle donne dall’esercizio d’autorità in ambito religioso lancia un messaggio politico di conferma e rilancio dell’assoggettamento cui miliardi di donne nei paesi non evo­luti sono sottoposte. Parliamo mentre — secondo i dati ISTAT - nel 2015 il 35% delle donne nel mondo ha subito una violenza. Nel 2015, 128 donne uccise in Italia. Dall’inizio del 2016 ci sono stati 59 femminicidi. Non solo uccisioni di donne, ma uccisioni di esseri umani perché donne, da parte di un partner uomo o di un aggressore «di genere».

Vi sono intere aree del mondo - per lo più, ma non unicamente, nei paesi islamici - in cui le donne sono private dei diritti e libertà più elementari. La matrice della violenza contro le donne può essere rintracciata ancor oggi nella disuguaglianza dei rapporti tra uomi­ni e donne. E la stessa dichiarazione adottata dall’As­semblea generale ONU parla di violenza contro le donne come di «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una po­sizione subordinata rispetto agli uomini».

Non si può non vedere che il ruolo/non ruolo delle donne nella Chiesa ha anche un valore di importante messaggio culturale, politico, umano!

I nodi da sciogliere sono dunque:

  • La «visione» de «la donna» sul piano antropologi­co e culturale;

  • la revisione delle incrostazioni culturali che for­mano le molte tradizioni, che non vanno confuse con la Tradizione; in questo rientra anche la revisione critica della motivazione «storica» dell’esclusione delle donne;

  • la riflessione sul rapporto tra «sacro» e «sacerdo­zio» e vita sacramentale della Chiesa;

  • l’approfondimento del messaggio biblico sull’es­sere umano chiamato alla reciprocità (il «genere» è umano perché è il genere dell’armonia del maschile e del femminile, dell’aiuto derivante dall’essere recipro­camente un «di fronte», 1’ ‘ezer ke-negdo di cui parla Genesi 2,18). Corrispondersi e fronteggiarsi, guardan­dosi negli occhi, alla stessa altezza, apre al dialogo che libera dalla solitudine e dalla possibile assolutizzazione di se stessi e del proprio modo (maschile o femminile) di essere degli umani;

  • l’approfondimento della tradizione neotestamen­taria e dalla prassi della comunità delle origini, in par­ticolare per quanto riguarda le donne.

    Sono nodi che non potranno essere sciolti senza l’apporto delle donne credenti e tra loro delle teologhe. E non senza che venga fatto circolare il moltissi­mo che negli ultimi decenni hanno già prodotto e che resta per lo più confinato nel matroneo. Ci chiedono di «balconear», come papa Francesco dice che non si deve fare!

    A questo riguardo va anche menzionata, sobria­mente e senza retorica, la sofferenza delle donne per la collocazione loro riservata nella vita ecclesiale. Una sofferenza che per non poche ha portato all’allontana­mento.25 Tanto che potrebbe esser presa in seria consi­derazione l’idea che le donne esprimano coralmente il loro disagio in qualche modalità non conflittuale, ma significativa, simbolica e concreta insieme, il cui mes­saggio non possa essere ignorato.

    La richiesta delle donne di essere comprese più pie­namente in una comunione ecclesiale che sia anche di genere, non è una «rivendicazione», ma un aiuto alla Chiesa (le cui autorità sono tutte uomini, per i quali la prospettiva androcentrica è forse una ovvietà cultura­le, metabolizzata e neppure consaputa e avvertita) a camminare in fedeltà al mandato di Gesù e ad annun­ciare l’Evangelo in modo più pieno e trasparente. Il mandato di Gesù alle donne come annunciatrici della Pasqua è sufficientemente rispettato nella prassi eccle­siale attuale?

    La «promozione» da parte di papa Francesco della memoria liturgica di santa Maria Maddalena a festa (come per gli «altri» apostoli), in quanto «apostola de­gli apostoli» è stata subito insidiata dalla traduzione del nuovo prefazio proprio.

    Se il testo latino recita «Et eam apostolatus officio coram apostolis [Christus] honoravit», la traduzione suona «la onorò con l’ufficio dell’apostolato verso gli apostoli». Ma in latino «coram» non vuol dire «nei confronti», bensì «al cospetto». La traduzione dovreb­be essere: «La onorò con l’ufficio dell’apostolato al co­spetto degli apostoli». Una differenza non da poco: in un caso si tratta di un apostolato ristretto, indirizzato verso gli apostoli, che poi hanno il compito di annun­ciare alla Chiesa e al mondo.

    Nell’altro caso si tratta del conferimento del munus apostolico a una donna, del quale gli apostoli sono te­stimoni.

    E importante che la Chiesa — che nelle sue autori­tà è ancor «sola» (anche se Dio ha detto «non è bene che l’uomo sia solo»: Gen 2,18), non ha integrato «l’aiuto di fronte» - ascolti le donne, promuova luo­ghi (un sinodo delle donne?) e occasioni di ascolto delle donne e delle teologhe. E infine, dopo aver ascoltato, trovi il modo di parlare a due voci, di guar­dare con una visione binoculare (maschile e femmini­le, di uomini e di donne) che, sola, consente di coglie­re la profondità.

Maria Cristina Bartolomei*

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 * Il testo di M.C. Bartolomei, già docente di Filosofia morale e Filosofia della religione presso l’Università di Milano, è stato pro­nunciato durante il 2° Convegno nazionale della rete dei Viandanti tenutosi a Bologna il 22 ottobre scorso con il tema «Chiesa di che genere sei? Carismi, ministeri, servizi per un popolo di donne e di uomini». Il titolo originale della relazione era «Una comunione di genere. Il riconoscimento di una differenza nella reciprocità». Alla rete dei Viandanti partecipano: Associazione “Amici don Germa­no”, Venezia / Casa della solidarietà, Quarrata (PT) / Chicco di Senape, Torino / Chiesa oggi, Parma / Città di Dio, Invorio (NO) / Comunità del Cenacolo, Merano (BZ) / Comunità ecclesiale sant’Angelo, Milano / Dialoghi, Lugano (Svizzera) / Esodo, Me­stre (VE) / Fine Settimana, Verbania (VB) / Fraternità degli Ana- wim, Roma / Galilei, Padova / Gruppo ecumenico donne, Verba­nia (VB) / Gruppo per il pluralismo e il dialogo, Colognola ai colli (VR) / Il Concilio Vaticano II davanti a noi, Parma / fi filo, Napoli / il Gallo, Genova / Itinerari e incontri, Fonte Avellana (PU) / Koinonia, Pistoia / Laboratorio di Sinodalità Laicale (LaSiLa), Milano / l’altrapagina, Città di Castello (PG) / Lettera alla Chiesa fiorenti­na, Firenze / Matrimonio, Padova / Nota-M, Milano / Oggi la Parola, Camaldoli (AR) / Oreundici, Civitella san Paolo (RM) / Sostenere, non Sopportare (SnS), Bologna / Tempi di Fraternità, Torino.

 

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Note:

  1.      Cf. E. FlGES, 11 posto della donna nella società degli uomini, Feltrinelli, Milano 1970.

  2. Nel 1792 Immanuel,Kant pubblicava in una rivista berlinese un saggio Sul male radicale nella natura umana; l’anno successivo tale saggio diventava il primo capitolo di un’opera vertente sul rap­porto tra conoscenza razionale e conoscenza rivelata di Dìo, dal tito­lo Dìe Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft. Nel 1794 usciva una seconda edizione dell’opera stessa arricchita da molte note (anche in risposta alle reazioni che essa aveva suscitato) e da una nuova «Prefazione».

  3. In una lettera dei 4 maggio del 1793 inviata a Cari Friedrich Staudlin, docente di teologia a Göttingen, Immanuel Kant scriveva, tra l’altro, che nello scritto allegato aveva inteso «esporre aperta­mente il modo in cui credo di intendere la possibilità dell’unione della religione cristiana con la più pura ragione pratica» (I. Kant, Epistolario filosofico 1761-1800, trad. it. a cura di O. Meo, Il me­langolo, Genova 1990, 319-320).

  4. «La rivelazione può senz’altro abbracciare entro sé anche la religione razionale pura; quest’ultima, invece, non può inglobare in sé l’aspetto storico deìla rivelazione. Di conseguenza, è possibile considerare la rivelazione come una sfera più vasta della fede, la quale contiene in sé la religione razionale pura come sfera più ri­stretta (non come due cerchi esterni l’uno all’altro, bensì come due cerchi concentrici). Il filosofo, in quanto maestro della ragione pura (che procede per semplici princìpi a priori), deve necessariamente mantenersi entro ì limiti della sfera più ristretta, e qui fare dunque astrazione da ogni esperienza»: I. KANT, La religione entro i limiti della semplice ragione, «Prefazione alla seconda edizione», a cura di V. Cicero, M. Roncoroni, Bompiani, Milano 2001, 65.

  5. La tematica del riconoscimento, inaugurata nella modernità, è attualmente molto trattata negli studi di filosofìa morale e politica, anche in relazione al multiculturalismo contemporaneo. Il riconosci­mento di nuove soggettualità e diritti è un fattore di sviluppo e inte­grazione sociale, ma il suo conseguimento presuppone il superamento di ostacoli e resistenze. Cf. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento,

    il Saggiatore, Milano 2002; P. RlCEUR, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005; C. Taylor, J. Habermas, Multicul­turalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2003.

          6 Sulla distinzione tra tradizione e tradizioni, cf. Y. CONGAR, La tradition et les traditions, Fayard, Parigi 1960; trad. it La tradizione e le tradizioni, a cura di G. AULETTA, Paoline, Roma 1961.

  1.  L’irrigidimento è comunque successivo alla riforma gregoria­na, prima, e al concilio di Trento, poi. Vi sono infatti testimonianze al tomedio evali di clero uxorato e di riconoscimento del possibile ministero delle donne. Nel 724 il prete lucchese Romualdo parlava a Telespiano, vescovo di Lucca, di sua moglie, la presbytera Ratperga chiedendo che, dopo la morte di uno dei due, Tuno o l’altra potesse­ro rimanere a servizio della Chiesa dei santi Pietro, Martino e Quiri­co dì Capannoli, ottenendo il consenso del vescovo. Cf. A. Ruberti, Quale prete per quale Chiesa. Ecclesiologia e ministero, Viator, Milano 2012, 10 (con ampia bibliografia). L’autore rimanda al più vasto saggio di G. ROSSETTI, «n matrimonio del clero nella società alto­medievale», in II matrimonio nella società altomedievale, Fondazione Centro italiano studi sull’alto medioevo, Spoleto 1977, 473-567. Il titolo di presbytera veniva verosimilmente attribuito alle mogli dei presbiteri (come accade nella tradizione ortodossa) e non significava che la donna fosse stata ordinata. Tuttavia il vescovo acconsente a che, nel caso di morte del marito, la presbytera possa continuare a esercitare un ministero nella Chiesa.

  2. Una preziosa illustrazione del nesso tra sapienza e «gesta» delle donne è offerta da M. Buber, Weisheit und Tat derFrauen{\929), in Id., Schriften zur Bibel: Martin Buber Werke II, Kòsel, München 1964, 917-924; trad. it. Martin Buber, Sapienza e opere delle donne. Per gli ottant’anni di Maria Leonardi, a cura di M. Doni, Edizioni Antilia, Treviso 2016, 19-23.

  3. Inviata alle stampe antecedentemente alla data di emanazione della suddetta lettera apostolica Dichiarazione,  una sintetica analisi delle ragioni del «no» della tradizione all’ordinazione presbiterale delle donne è rinvenibile in: M.C. BARTOLOMEI, «Donne presbitere: sono proprio ragioni quelle del “no”?», in Protestantesimo 50 (1995) 1, 37-52. 

10    I teologi si divisero nella valutazione se si trattasse o meno di un pronunciamento infallibile, in quanto ex cathedra, ovvero in quanto esprimente il magistero ordinario del collegio universale dei vescovi. Sembra condivisibile l’opinione che un pronunciamento ex cathedra debba per definizione essere esplicitamente dichiarato tale dal papa che lo pronuncia, il che non fu il caso di Ordinatio sacerdotalis, anche se certamente il papa intese chiudere «per sempre» la questione, delegittimando ogni ulteriore discussione in proposito. E fu ampiamente argomentato come non si potesse considerare ex- post come espressione del magistero ordinario dei vescovi. Si può quindi fondatamente sostenere che tale pronunciamento non sia formalmente irriformabile.

Tra i teologi autorevoli e famosi che si schierarono contro la pretesa di infallibilità di Ordinatio sacerdotalis: la Catholic Theologi- cal Society of America; Nicholas Lash, docente di Teologia, Univer­sità di Cambridge, Gran Bretagna; Francis A. Sullivan sj, docente emerito della Pontificia università gregoriana, Roma e docente ag­giunto al Boston College; Elisabeth A. Johnson, csj, docente di Teo­logia alla Fordham University, New York; Gisbert Greshake, docen­te di Teologia all’Università di Freiburg, Germania; Ann O’Hara Grafi, docente di Teologia all’Università di Seattle, Washington, USA; Peter Hùnermann, docente di Teologia all’Università di Tubinga, Germania; Sidney Cornelia Callahan, teologa, USA; David Knight, teologo, Memphis, USA.

In particolare, cf. F.A. SULLIVAN, Creative Fidelìty. Weighing and Interpreting Church Docummts (trad. it. Capire e interpretare il magistero. Una fedeltà creativa, EDB, Bologna 1997). Dello stesso autore cf. anche Magisierium. Teaching Authority in thè Catholic Church, Paulist Press, Mahwah 1983; trad. it. Il magistero della Chie­sa cattolica, Cittadella editrice, Assisi 1986. Nel settembre 1997, Sullivan criticò l’arcivescovo Bertone della Congregazione per la dottrina della fede per aver avanzato tre ipotesi a suo avviso infonda­te: 1) che una semplice dichiarazione del papa sia sufficiente a far sì che un insegnamento sia fissato come infallibile dal magistero ordi­nario e universale del collegio dei vescovi; 2) che tutte le verità «cer­tamente vere e non soggette a dubbio» siano coperte da infallibilità; 3) che per rilevare l’esistenza del consenso del collegio intemaziona­le dei vescovi sia sufficiente un consenso registrato nel passato. Os­servava Sullivan che decidere se una dottrina è coperta da infallibili­tà non è questione decidibile sul piano dottrinale, ma deve avere fondamento in un fatto «chiaramente fondato», secondo il C/C, can. 749, § 3. Non risultava chiaramente mostrato che non solo il papa, ma l’assemblea dei vescovi dell’intero mondo considerasse tale dottrina come da ritenersi definitiva per i fedeli: cf. Id., «Recent theological observations on magisteri documents and public dissento, TkeologicalStudies58(1997), 509-515.

11 Così si legge nel motu proprio Omnium in mente-. «Art. 1. Il testo del can, 1008 del Codice di diritto canonico sia modificato in modo che d’ora in poi risulti così: “Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare tìtolo, il popolo di Dio”.

Art. 2. Il can. 1009 del Codice di diritto canonico d’ora in poi avrà tre paragrafi, nel primo e nel secondo dei quali si manterrà il testo del canone vigente, mentre nel terzo il nuovo testo sia redatto in modo che il can. 1009, § 3 risulti così: “Coloro che sono costituiti nell’ordine dell’episcopato o del presbiterato ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo capo, i diaconi invece ven­gono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità”»; EV26/1226-1229.

        Il vecchio testo dei due canoni del CIC del 1983 diceva al can. 1008: «Sacramento ordinis ex divina instituiione inter christifìdeles quidam, charactere indelebili quo signantur, constituuntur sacri mini­stri, qui nempe consecrantur et deputantur ut, prò suo quisque gradu, in persona Christi capitis munera docendi, sanctijicandi et regendi adimplentes, Dei populum pascant (Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli mediante il carattere indele­bile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a pascere il popolo di Dio, adem­piendo nella persona di Cristo capo, ciascuno nel suo grado, le fun­zioni di insegnare, santificare e governare»).

Al can. 1009, § 1: «Ordines sunt episcopatus, presbyteratus et diaconatus (Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato).

Al can. 1009, § 2. Conferuntur manuum impositione et precatio­ne consecratoria, quam prò singulis gradibus libri liturgici praescribunt (Vengono conferiti mediante l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria, che i libri liturgici prescrivono per i singoli gradi»).

12     La possibilità dell’accesso delle donne al diaconato si era già arenata con la relazione della Commissione teologica intemazionale del 2003 (cf. Regno-doc. 9,2003,275), che non riuscì ad accordarsi sul problema storico e teologico dell’antico diaconato delle donne: c’era mai stato un diaconato delle donne equivalente a quello degli uomi­ni? O si era trattato di una forma di servizio non ordinata? Il canone di Nicea il quale precisa che le donne diacono sono da considerarsi laici, come va interpretato? Allude forse proprio al fatto che in secoli precedenti non era stato così? Se la cosa era pacifica che bisogno c’era di precisarla?

13 In Kant si trova la distinzione tra la nozione di limite/confine (Grenze) - che non impedisce fisicamente un oltrepassamento e può divenire una soglia - e quella barriera/confine (Sckranke) che ha la funzione di chiudere un passaggio invalicabile. Cf. I. Kant, Prolego­meni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza (1783), trad. it. a cura di P. Martinetti, M. Roncoroni, Rusconi, Milano 1995,221.

14 Pontificia Commissione Biblica, «Can Women Be Priest?», in L. SWIDLER, A. Swidler (a cura di), Women Priests: A Catholic Commentary on thè Vatican Declaration, Paulist, New York 1977, 338-446; trad. it. in Regno-att. 4,2015,415. Analogamente si esprime un documento della Catholic Biblical Association of America: «II Nuovo Testamento per quanto non decisivo in se stesso fa propen­dere per l’ammissione delle donne al sacerdozio», in The Catholic Biblcal Quarterly 41(1979), 608-613, citato da A. Piola, Donna e sa­cerdozio. Indagine storico-antropologica degli aspetti teologici della or­dinazione delle donne, EfFatà, Torino 2006, 469s.

15 Cf. H. DENZiNGER, A. SCHÓNMETZER, Enchiridion Symbolorum, §§ 238-249: « Ut legem credendi lex statuat supplicandi»; la for­mula è tratta dall’Indiculus de gratia Dei, un documento del V seco­lo, attribuito tradizionalmente a Prospero d’Aquitania.

16 Cf. al riguardo U.G.G. Derungs, M.C. BARTOLOMEI, «Sacerdozio-sacrificio: aporie e conseguenze di un circolo ermeneuti­co», in Anatemi di ieri sfide di oggi. Contrappunti di genere nella rilet­tura del concilio di Trento, a cura di M. Perroni, A. Autiero, EDB, Bologna 2011, 129-148.

  1.  Cf. F. Mussner, Dos Wesen des Christentum ist synesthiein (l’essenza del cristianesimo è synesthiein, il condividere la mensa, nda), citato in G. Ruggieri, «Dio - straniero nella Chiesa?», in Pro­testantesimo, 52(1997) 2-3, 99-127; riferimento a p. 107, nota 11.

  2. Sulla forza, i limiti e i pericoli di insistere su questa metafora, sia lecito rinviare a M.C. BARTOLOMEI, «Lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!”    (Apocalisse 22,17). Potenza e limiti di una metafora», in Passione per la teologia, a cura di C. Aiosa, F. Bosin, Effatà, Torino 2016,163-177.

  3. S. Dianich, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazio­ne ecclesiologica, Paoline, Roma 1984, 283.

  4. Sacra Congregazione per la dottrina della fede, di­chiarazione Inter insignores circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale, 15.10.1976: AAS 69 (1977), 98- 116; £75/2110.

  5. Ivi.

  6. «Allo stesso modo, l’assorbimento dell’umano nell’univocità di una figura maschile, patriarcale e onnipotente, ha condannato, nei secoli, all’oscurità e all’insignificanza la figura femminile, sentita più vicina alla natura, lasciando alla fine impoverito lo stesso ma­schio»: N. NEGRETTI, Matrimanio XLI(2016) 3, 24.

  7. Certo, pensando ai grandi monoteismi, vanno menzionate le sinagoghe alternative; le imam donne — ma per moschee riservate alle donne, dunque senza superamento della discriminazione; nel cristianesimo, le Chiese della Riforma (ma anche la Chiesa scismati­ca dei veterocattolici) da qualche decennio ammettono le donne co­me ministri, pastori, vescovi. Non la Chiesa ortodossa, nella quale però (come nella Chiesa cattolica di rito orientale) il ministero pre­sbiterale uxorato ammorbidisce l’allontanamento tra donne e «sa­cro». Non così la Chiesa cattolica di rito latino.

24 Cf. M.C.JACOBELLI, Sacerdozio, donna, celibato, Boria, Roma 1981.

25 Cf. A. MATTEO, La fuga delle quarantenni. Il diffìcile rapporto delle donne con la Chiesa, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.

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Data di publicazione: Lunedì, 19.12.2022   

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